(RI)PRODURRE FUTURI SENZA FUTURITÀ RIPRODUTTIVA. ECOLOGIE XENOFEMMINISTE

Questo saggio si colloca in una fase critica e politica che è stata definita “ottimismo di sinistra”: un nuovo stato d’animo nella sinistra che inquadra l’ottimismo quale “risorsa affettiva fondamentale per galvanizzare le lotte politiche” (Rowan, 2015: n.p.) e che respinge il disfattismo in nome di ambiziosi progetti contro-egemonici. Nel corso degli ultimi anni sono stati pubblicati diversi manifesti nei quali si ripone la speranza (contro ogni probabilità) nella nostra capacità di stringere alleanze significative e sfidare collettivamente il capitalismo neoliberista e l’oppressione strutturale. La mia posizione politica si situa nello “xenofemminismo”, posizione articolata dal collettivo femminista internazionale Laboria Cuboniks, di cui faccio parte. Lo xenofemminismo rappresenta il tentativo di articolare una politica di emancipazione di genere adeguata a un’era caratterizzata da globalità, complessità e tecnologia, una politica che concepisce la tecnologia come strumento per l’attivismo, e nel contempo cerca di confrontarsi con la realtà contemporanea “tratteggiata da cavi in fibra ottica, onde radio e microonde, oleodotti e gasdotti, rotte aeree e di navigazione e l’inesorabile, simultanea esecuzione di milioni di protocolli di comunicazione a ogni millisecondo che passa” (Laboria Cuboniks, 2015: n.p.).

L’oggetto dello xenofemminismo, dunque, non è né la donna né l’umano, se con questi termini si intendono suggerire entità discrete ritagliate dal più ampio tessuto dell’esistenza tecnomateriale. Invece, lo xenofemminismo è interessato agli assemblaggi all’interno dei quali sono incorporati gli agenti sociali. Ciò è evidente nel testo del nostro recente manifesto, “Xenofemminismo: una politica per l’alienazione”, che si sforza di essere molto attento all’intreccio e alla co-costituzione di attori a base di carbonio e silicio. Fa frequentemente riferimento alle attuali condizioni tecnoscientifiche, dalle reti di solidarietà on-line, al fenomeno iperstizionale del mercato azionario, ai progressi suggestivi, ma embrionali, della medicina open source. In tal modo, il manifesto indica alcuni dei molti modi attraverso i quali l’alterazione tecnologica potrebbe generare forme di alterità radicale. “La Natura”, nel frattempo, emerge come forza ricorrente nel testo, non come rafforzamento naturalizzante o essenzializzante per politiche di genere ed ambientali, ma come uno spazio di contestazione sempre già tecnologizzato che, in sostanza, dà forma a esperienze di vita vissute. “La Natura” (non ultimo quando si manifesta in corpeazione di genere) è vista come uno spazio di sperimentazione: non un dato di fatto da accettare, ma un terreno di negoziazione di cui riappropriarsi attivamente. Ciò è riassunto nella chiamata all’azione che chiude il manifesto: “In nome del femminismo, ‘la Natura’ non sarà più un ricettacolo di ingiustizie […] Se la natura è ingiusta, cambiala!” (Laboria Cuboniks, 2015: n.p.). Ho deciso di cominciare da questi elementi sia per sottolineare la posizione da cui parto nell’articolare le mie idee, sia perché molto di ciò di cui intendo discutere qui parte da questa posizione come punto di riferimento implicito.
Lo xenofemminismo, in quanto progetto politico e teorico, è nettamente orientato al futuro e traccia sviluppi emergenti nella tecnologia e nel post-umano, al fine di immaginare un mondo al di là delle concezioni attuali di genere, razza e classe. Tuttavia, a parte le nostre riflessioni (relativamente brevi) sulle tecnoculture globalizzate – “chi lavora in fabbrica in condizioni abominevoli, i villaggi del Ghana diventati depositi di rifiuti tecnologici […]” (Laboria Cuboniks, 2015: n.p.) – il nostro lavoro deve ancora confrontarsi realmente con l’Antropocene. Per dirla in altro modo, abbiamo teorizzato il futuro (per non parlare dei vari sensi della parola “natura”), senza riflettere sulle condizioni necessarie per l’esistenza biologica dalle quali deve ovviamente dipendere qualsiasi progetto orientato al futuro. Con questo articolo voglio iniziare a rimediare almeno in parte a questa mancanza, inquadrando il nostro transfemminismo queer e tecnomaterialista in termini ecologici e di ragionamenti relativi alla popolazione umana. Le argomentazioni che propongo qui intendono essere provocatorie, piuttosto che prescrittive, e sono certamente più flessibili e gestuali di quanto vorrei. Tuttavia, le idee qui contenute rappresentano un primo passo in un progetto a lungo termine, progetto che mi auguro possa essere considerato come un invito a discutere, impegnarsi, e costruire uno xenofemminismo migliore.
Il titolo di questo articolo è “(Ri)produrre futuri senza futurità riproduttiva”. Parte dal lavoro del teorico queer Lee Edelman che, nel suo libro del 2004 No Future: Queer Theory and the Death Drive, com’è noto, muove una critica all’idea di “futuro” in quanto costrutto eteronormativo. Intendo utilizzare il lavoro di Edelman per indicare i limiti di alcuni dei discorsi che più comunemente circolano nell’ambito dell’attivismo contro i cambiamenti climatici, vale a dire, che la questione centrale di tale attivismo dovrebbe essere la conservazione dell’esistente per le generazioni future, e che esso dovrebbe essere definito principalmente come uno sforzo per proteggere la legittima eredità de* “nostr*” figl*. Per Edelman, il mondo contemporaneo è caratterizzato da un futurismo riproduttivo in cui il “Bambino rimane l’orizzonte perpetuo di ogni politica riconosciuta, il beneficiario fantasmatico di ogni intervento politico” (2004: p. 3). Come afferma Edelman, incontriamo

da ogni parte l’immagine disciplinare del Bambino […] mentre le vite, i discorsi e la libertà degli adulti si trovano sotto la costante minaccia di una decurtazione legale per rispetto verso i bambini immaginari il cui futuro – come se fosse loro consentito averlo, se non in quanto costituiti nella prospettiva di trasmetterlo ai propri figli – viene rappresentato come messo in pericolo da quella malattia sociale che viene considerata la sessualità queer. (Edelman, 2004: p. 19)

Le esigenze degli adulti – in particolare di quegli adulti che non si riproducono – sono costantemente subordinate a quelle dei bambini, in quanto portatori dell’idea di futuro. Gli esempi principali che Edelman offre di questo fenomeno sono la dilagante omofobia culturale e l’ attivismo cosiddetto “pro-vita”.
Quando pensiamo il futuro, che è in larga misura il terreno peculiare della politica, Edelman afferma che perpetuiamo inevitabilmente una cultura elogiativa del bambino, e quindi funzionale al sostegno di ideologie della famiglia che sono sia etero che omonormative. Mentre il sesso eterosessuale o la relazione diadica monogama sono socialmente legittimati attraverso l’“alibi” della riproduzione biologica e sociale, il queer viene a rappresentare la “violenta disfatta di senso, la perdita di identità e coerenza, l’accesso innaturale al godimento (jouissance)” (Edelman, 2004: p. 132). È l’alterità irredimibile e irrecuperabile. L’unica risposta proporzionata a questo stato di cose è, per Edelman, il rifiuto: il rifiuto della politica, il rifiuto del futuro, il rifiuto del Bambino. Chi si trova oltre i confini santificati dell’eteronormatività deve, secondo la sua analisi, abbracciare la pulsione di morte e diventare ciò che il futurismo riproduttivo ha già deciso che sia: solo un mucchio di froce egoiste.

Il lavoro di Edelman è chiaramente un’argomentazione polemica, che in maniera divertita vuol fare paura agli etero e che denuncia il “fascismo del viso del bambino” (2004: p. 75). In quanto tale, quindi, è perversamente seducente – per non dire seducente nella sua perversione – e convincente, affascinante, dispettoso. Inoltre rende consapevoli quell* di noi interessat* a una prospettiva eco-queer, di alcuni dei rischi insiti nella definizione di futuro. Si pensi alle immagini usate per promuovere la marcia globale per il clima tenutasi a Londra, New York, Parigi e altrove. Sui manifesti affissi in tutte le reti di trasporto urbano, è rappresentata un’eterea ninfa-bambina che stringe fra le mani un mulino a vento giocattolo, mentre fissa il futuro con gli occhi spalancati. Se situiamo le nostre azioni come proteste in favore delle generazioni a venire, rischiamo di partecipare involontariamente al culto del Bambino, che è così centrale nel determinare quali vite siano prioritarie e quali esigenze siano considerate importanti. Tuttavia, i limiti della tesi incentrata sull’idea di rifiutarsi e ritirarsi delineata in No Future sono abbastanza chiari. Che cosa significa cedere l’intero territorio della politica ai “valori della famiglia”? Quali sono le implicazioni del celebrare “l’atto di resistere all’asservimento al futuro in nome dell’avere una vita”? (Edelman, 2004: p. 30) Vivere nel presente e dire “fanculo il futuro” difficilmente appare una risposta efficace di fronte al disastro ecologico imminente – e in effetti, il fatto che l’analisi di Edelman si sostenga in gran parte tramite letture queer di classici del cinema hollywoodiano suggerisce che tali crisi non rientrino, in realtà, nel suo campo di analisi. In queste sue affermazioni, non sta effettivamente prendendo in considerazione la cruda realtà dell’Antropocene contemporaneo, quindi forse non è corretto inquadrare la sua critica in questi termini; e tuttavia, le implicazioni indesiderate di No Future rimangono.

Nina Power è tra coloro che hanno mosso un’obiezione in termini generali a questa narrazione della futurità riproduttiva, facendo notare come alcuni aspetti della posizione apparentemente radicale di Edelman facciano il gioco delle strutture esistenti del neoliberismo, e osservando che “il capitalismo dipende dalla riproduzione dell’identità in veste di differenza, dall’idea che non esista alternativa e [che] nessun futuro (nel senso di nuovi modi di vivere) sia possibile” (2009: p. 2). Commenta inoltre che la fusione operata da Edelman della politica-con-il-futuro-con-il-bambino non è valida in tutte le situazioni: “la questione di una resistenza ‘queer’ (vale a dire, non futura) alle relazioni nella comunità ha infatti rappresentato un problema per i vari movimenti politici del XX secolo. Sono esistite varie modalità di resistenza ‘queer’ al principio organizzatore dell’eteronormatività, che sono state, al tempo stesso, progetti esplicitamente politici” (2009: p. 8). Power fa l’esempio del movimento dei kibbutz, al quale potremmo aggiungere numerose forme di attivismo e teoria ecoqueer. Il lavoro di Alexandra Pirici e Raluca Voinea sul “Manifesto per il Ginecene” ne rappresenta un utile esempio: un progetto che promuove il passaggio a un atteggiamento di cura, ma che allo stesso tempo indica che qualunque modo di immaginare il futuro non è solo finalizzato a proteggere i nostri bambini, ma è invece cruciale per alimentare una politica collettiva.

Vorrei anche criticare la posizione di Edelman partendo dal punto di vista della solidarietà con le lavoratrici riproduttive. Qualunque sia la sua posizione su chi di fatto si prenda cura di altre persone, è chiaro che l’autore ha ben poca simpatia per la figura culturale del Genitore. Si veda, ad esempio, questa nota a piè di pagina nella sua introduzione:
“Narcisismo!” salirà l’urlo. “Chi, dopo tutto, è più votato all’abnegazione, più disposto al sacrificio di un genitore? Chi è più disposto a svolgere ore di lavoro non retribuite?” Non retribuite? Si consulti il libro mastro dell’approvazione sociale. Codici fiscali, liste bebè, le varie forme di congedo parentale: tutto ciò, naturalmente, impallidisce di fronte ai costi necessari per allevare un bambino. Ma il guadagno dei sostenitori della natalità non si misura principalmente in dollari o in senso [sic]. È inscritto nel consolidamento universale della propria posizione di adulto e nell’accantonamento di capitale sociale che permette una partecipazione all’unico mercato del futuro che davvero conti qualcosa… (Edelman, 2004: pp. 156-7, n. 14)
Il risentimento qui sembra palpabile, anche quando l’autore elenca, con una certa riluttanza, quelle marginali ricompense finanziarie collegate alla genitorialità. Crescere un bambino può sicuramente, per alcun*, portare con sé un afflusso di capitale sociale che compensi le perdite finanziarie, come ben sanno quell* di noi che resistono al richiamo della futurità riproduttiva e che si vedono negato l’accesso al capitale sociale. Ma l’umanità non può vivere di solo capitale sociale, e lo sfinimento, l’impoverimento e lo sfruttamento da parte del capitalismo bianco patriarcale di molte delle persone impegnate in ruoli di cura e delle lavoratrici riproduttive meritano qualcosa di più del trattamento sprezzante che qui viene loro riservato.

Naturalmente, la celebrazione della riproduzione e la distribuzione del capitale sociale non sono in alcun modo fenomeni distribuiti in modo uniforme. La “mammina sexy” bianca e benestante sarà anche lodata per il suo contributo al futuro dello Stato nazionale, ma le ragazze adolescenti, le madri nere e latine, le persone trans* e genderqueer, gli/le immigrat* e i/le profugh* non ricevono lo stesso trattamento. Ciò purtroppo è dolorosamente evidente nelle storie che raccontano dell’abuso della sterilizzazione e dell’esecuzione non richiesta di chiusura delle tube – storie determinate dalla razza e dalla classe – per non parlare dei tentativi, negli Stati Uniti, di imporre la contraccezione a lungo termine ad alcuni gruppi (come chi usufruisce dell’assistenza sociale o è stat* condannat* per un crimine). José Esteban Muñoz fa un ragionamento simile nel suo libro Cruising Utopia: The Then and There of Queer Futurity, questa volta dal punto di vista del bambino. Egli osserva che “Così come non tutt* i/le queer corrispondono all’“uomo-bianco-gay-universale- subdolo” che si rende invisibile […], non tutt* i bambini sono i bambini bianchi privilegiati a cui si rivolge la società contemporanea […]. Il futuro va solo a vantaggio di alcuni bambini. I bambini razzializzati, i bambini queer, non sono i principi sovrani della futurità” (2009: pp. 94-95). Tutto ciò è molto utile in quanto ci porta a considerare in modo diverso chi dà e chi riceve cure. Esige che si pongano domande nuove: come possiamo sostenere coloro che sono impegnate nella riproduzione sociale e che non godono nemmeno della rete di sicurezza relativamente immateriale del capitale sociale? Come possiamo agire in solidarietà con coloro dai quali altr* dipendono e che forniscono un enorme contributo sociale e politico, spesso non riconosciuto, con il loro lavoro rigenerativo?

L’appello di Muñoz all’utopia è un’importante replica a Edelman, ed è istruttivo per il quadro che offre per pensare “queer”: non contro il futuro, ma come ciò che non è realizzato, l’emergente, e che deve ancora venire. Egli dichiara che “il tempo etero ci suggerisce che non esiste futuro, ma solo il qui e ora della nostra vita di tutti i giorni. L’unico futuro promesso è quello dell’eterosessualità maggioritaria riproduttiva, lo spettacolo dello stato che rimpolpa le sue fila attraverso atti espliciti e sovvenzionati di riproduzione (2009: p. 22). Invece di utilizzarlo come base dalla quale partire per respingere il futuro, tuttavia, Muñoz lo incorpora in una chiamata a raccolta di futuri nuovi e migliori: “È importante non consegnare la futurità al futuro normativo e riproduttivo bianco. Quella modalità dominante di futurità è senza dubbio ‘vincente’, ma questa è una ragione in più per esigere un’immaginazione politica utopica che ci permetterà di intravedere un altro tempo e luogo: un ‘non ancora’, in cui le/i giovani queer di colore riescano realmente a crescere” (2009: p. 96). E a questo potremmo aggiungere, in cui varie altre forme di attori a base di silicio e carbonio possano sussistere, co-esistere, e prosperare. Il lavoro di Muñoz, a mio avviso più di quello di Edelman, è in linea con l’insistenza xenofemminista sull’idea che “Il nostro futuro richiede depietrificazione” (Laboria Cuboniks, 2015: n.p.).

Ma mentre possiamo accettare che l’utopia sia utile a galvanizzare l’immaginario politico, ci sono ancora alcuni spunti proposti da Edelman che abbiamo bisogno di adottare e integrare, e parte di ciò comporta essere esplicit* su come tutta questa discussione sul futurismo riproduttivo si intersechi con l’eco-politica e le idee sull’Antropocene. Nell’agire per conto delle generazioni future, dobbiamo stare attent* a non favorire “il valore supremo della sopravvivenza di specie come tecnologia discorsiva dell’eterosessualità obbligatoria” (Sheldon, 2009: n.p.). Come ho suggerito, fintanto che inquadriamo il nostro attivismo come volto a proteggere la terra per i “nostri” bambini, rischiamo di promuovere nozioni restrittive, esclusive e xeno-inospitali di quali esistenze contino davvero. Ovviamente, nel privilegiare indirettamente linee di discendenza genetica e patrimonio culturale, tali approcci sono distintamente specisti, incuranti delle molte altre forme di vita su cui il cambiamento ambientale potrebbe avere un impatto. Come possiamo, dunque, pensare la riproduzione – anche solo nel senso di assicurare la sopravvivenza di altr* nel futuro – senza riprodurre allo stesso tempo la peggiore futurità riproduttiva?

A questo punto, vorrei rivolgermi al lavoro di Donna Haraway, che ha fatto così tanto nel corso degli anni per aiutarci a inquadrare la nostra specie nel suo contesto biologico e tecnomateriale più ampio. In un articolo per Environmental Humanities pubblicato all’inizio del 2015, Haraway ci offre un nuovo slogan per un’epoca di crisi climatica: “generate parentele, non bambini!” (2015: p. 161). Questo è, chiaramente, uno slogan composto da due parti: forse la direttiva più facile da cogliere è il suggerimento che noi, in quanto specie, dobbiamo ridurre il nostro tasso di natalità. Le proiezioni demografiche ufficiali delle Nazioni Unite attualmente indicano che il numero di persone che abitano il pianeta supererà la soglia dei 10 miliardi entro la fine del secolo, contribuendo a creare problemi rilevanti in termini di “disponibilità di cibo e accessibilità” (2011: n.p.). Gli studi rivelano che questa situazione potrà essere notevolmente aggravata dalla crisi ambientale, con una perdita fino al 30% nel rendimento delle colture a livello mondiale entro il 2080, a causa del cambiamento climatico (Hallegatte et al, 2016: p. 4). Esiste il timore comprensibile che in particolari regioni si possa superare il livello di sostenibilità, dal momento che alcuni ambienti, a livello locale, si avvicinano al massimo carico di popolazione che sono in grado di sostenere. Il rischio è che si producano effetti negativi non solo sulle vite umane, ma anche sulle altre specie: e da ciò deriva il contenimento della fertilità suggerito da Haraway. “Tra qualche centinaio di anni a partire da oggi”, secondo il suo ragionamento, “forse la popolazione umana del pianeta potrà nuovamente arrivare a due o tre miliardi circa, e nel frattempo essa potrà contribuire a sostenere un crescente benessere per esseri umani diversi e altre creature, intesi come mezzi e non solo come fini” (2015: p. 162).

A qualunque sfida conduca un aumento del numero di esseri umani, tuttavia, è importante notare che la densità della popolazione è solo uno dei fattori in gioco nella complicata questione delle pressioni che gravano sull’ambiente. È ovvio che qualsiasi inquadramento del problema che lasci il capitalismo fuori dal discorso è insufficiente e miope. Metodi dispendiosi e insostenibili di produzione, combinati alle abitudini apprese nel consumo di risorse e materie prime, svolgono un ruolo di primo piano nell’erodere le condizioni che rendono la vita (letteralmente) vivibile. Tuttavia, pur riconoscendo la necessità di fare i conti con gli affetti sistemici del mercato, continuo a posizionarmi al fianco di Haraway nel suo invito a “generare parentele, non bambin*”, almeno nella misura in cui si rivolge alle classi privilegiate dell’attuale Nord del mondo. Ridurre i tassi di natalità, dopo tutto, può portare con sé una serie di vantaggi strategici che vanno al di là del potenziale impatto ecologico. A breve termine, potrebbe favorire una serie di cambiamenti di atteggiamento verso nuovi arrivati: non solo verso i più piccoli e i loro nuovi responsabili, ma anche verso coloro che sbarcano oltre i confini nazionali. Come commentava un recente articolo del Guardian, “l’Europa ha disperatamente bisogno di persone giovani per sopperire ai servizi sanitari, popolare le aree rurali e prendersi cura degli anziani perché, sempre più spesso, le sue società non sono più autosufficienti’ (Kassam et al, 2015: n.p.). La Germania, che ha il tasso di natalità più basso al mondo, è particolarmente sensibile a questa necessità:
L’ONU prevede che, entro il 2030, la percentuale dei tedeschi sul posto di lavoro scenderà del 7%, per arrivare ad appena il 54%. Nessun altro paese industriale è così duramente colpito – e questo nonostante il forte afflusso di giovani lavoratori migranti. […] Per compensare questa carenza, la Germania ha bisogno di accogliere una media di 533.000 immigrati all’anno; questo dato fornisce forse un contesto per la stima secondo la quale 800.000 e più rifugiati giungeranno in Germania quest’anno. (Kassam et al, 2015: n.p.)

Gli economisti e i consulenti delle politiche pubbliche stanno anche raccogliendo dati su questo fenomeno (compresi quelli dell’Istituto tedesco per la ricerca economica, che ha pubblicato uno studio sull’impatto economico della crisi dei migranti all’inizio di questo mese). A causa degli imminenti cambiamenti demografici, esiste chiaramente la possibilità che i rifugiati (la maggioranza dei quali è sotto i 25 anni) possano contribuire alla società tedesca e sostenere l’economia nazionale (Connolly, 2015: n.p.). Ad esempio, si prevede che l’afflusso di sangue giovane stimolerà notevoli investimenti in infrastrutture nazionali, comprese scuole, reti di trasporto ed edilizia sociale. Per quanto crei disagio quantificare la miseria umana nel registro contabile, sembrerebbe che la crisi demografica abbia il potenziale di agire come una leva per trovare una risposta etica alla crisi umanitaria. Essa non solo dà una motivazione politica per accogliere coloro che sono stati sfollati, ma può agire come strumento per superare l’ostilità impulsiva nei confronti dell’alterità che è diventata così tremendamente evidente nelle ultime settimane. Per essere chiara, non sto suggerendo che i cambiamenti demografici siano un proiettile d’argento contro la xenofobia. Certamente, non potranno generare cambiamenti significativi senza affiancarsi alla lotta politica e alla contestazione a lungo termine. Sto semplicemente suggerendo che questi cambiamenti possono agire come meccanismo per spostare l’orizzonte del dibattito sulle migrazioni e quindi offrire un nuovo strumento per la “cassetta degli attrezzi” dell’attivista.

E, naturalmente, mentre le Nazioni Unite prevedono un forte calo nel numero di tedeschi nei luoghi di lavoro entro il 2030, la Banca Mondiale fa una previsione diversa (sebbene, forse, collegata) per questo lasso di tempo: nel mese di novembre, ha attirato la nostra attenzione sui quei 100 milioni di persone che il cambiamento climatico spingerà nella povertà estrema nel corso dei prossimi 15 anni. La relazione sottolinea che “l’impatto del riscaldamento globale è subìto in modo non uniforme, con i poveri del mondo che risultano tristemente impreparati ad affrontare sconvolgimenti climatici come l’innalzamento del livello dei mari o le forti siccità” (Ritter, 2015: n.p.) e si concentra sulle azioni specifiche (ad esempio, il potenziamento delle difese contro le inondazioni e la distribuzione di colture tolleranti alle alte temperature) necessarie per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici inevitabili. Quello che il rapporto della Banca Mondiale non considera esplicitamente, tuttavia, è ciò che viene definito come l’“impatto secondario dei disastri (ad esempio l’effetto potenziale dei migranti e dei rifugiati)” (Hallegatte et al, 2015: p. 12). Si tratta di un punto importante per la nostra discussione, in quanto gli effetti decimanti dei cambiamenti climatici nelle regioni più povere del mondo molto probabilmente favoriranno un ulteriore flusso di persone verso le parti più ricche dell’Europa e del resto del mondo. Se i tassi di natalità del “primo mondo” vengono soppressi, cioè, se è possibile sviluppare una cultura alternativa a quella che feticizza la riproduzione biologica, allora ciò costituisce potenzialmente uno strumento da utilizzare nel tentativo di costruire un Nord del mondo più ospitale per lo xeno. C’è da augurarsi che questo cambiamento di atteggiamento sopravvivrà a lungo oltre la crisi, contribuendo a far crollare le mura della “Fortezza Europa” una volta per tutte.

Riflettendoci, è rilevabile qui – nel punto in cui una comprensione più convenzionalmente socialmente democratica del lavoro, dei diritti e dello stato-nazione si scontra con le richieste più radicali dello xenofemminismo – una sorta di tensione interna al progetto. In parte questo accade poiché tali aspetti operano su diversi piani temporali. L’imperativo etico a breve termine di usare qualsiasi mezzo retorico necessario per difendere la libera circolazione dei popoli e accogliere chi non ha più un luogo dove stare, richiede di sfruttare le condizioni sociali esistenti (come ad esempio le idee correnti su lavoro e migrazione). In questo contesto, l’uso di immagini di bambini ‘innocenti’, per esempio, è forse giustificabile per la sua capacità di stimolare affetti e modificare l’opinione pubblica. Ma esiste il rischio che tali approcci a breve termine (che sfruttano – e quindi, indirettamente rinforzano – tropi esistenti e problematici all’interno del discorso politico esistente) possano minare o diventare d’intralcio per il progetto più ampio. Perché quindi si ammettono tali tensioni interne? Il mio sentire attuale mi spinge a ritenere che abbiamo bisogno di tattiche molteplici, capaci di operare a velocità diverse, su scale differenti e diversi fronti – un’ecologia di attivismi, se vogliamo, che ci permetta di fare strategicamente uso delle condizioni presenti senza perdere di vista il nostro desiderio di trasformarle. Come ha detto in maniera molto calzante feminoska di LesBitches nel corso di una nostra conversazione, ‘dobbiamo accettare un certo grado di contraddizione interna, perché altrimenti la nostra lotta senza compromessi arriverebbe probabilmente a nuocere proprio a coloro che sono più oppressi’. Tuttavia, questo non è un tentativo di nascondere o giustificare le tensioni all’interno del testo, è piuttosto un riconoscimento sincero del mio faticoso sforzo volto a riconciliare scale divergenti e filoni di attivismo potenziale.

Tra gli ulteriori risultati, ambivalenti ma potenzialmente produttivi, di un calo del tasso di natalità nel Nord del mondo potrebbe esservi quello di un sostanziale passo in avanti nel campo delle tecnologie assistive, e un nuovo fulcro d’interesse dello sviluppo tecnologico, finora bastione delle fantasie militari e industriali, verso le questioni della cura e del sostegno alla disabilità. I giovani sono sovente considerati (anche se spesso non in modo esplicito) quali futuri operatori assistenziali, non retribuiti, delle persone che li hanno generati – da qui la dinamica tipicamente (e forse inconsciamente) padronale messa in atto tra genitori e figli in Occidente – e questo lavoro di cura viene richiesto ancora, e in maniera sproporzionata, a figlie e altre parenti di sesso femminile.
Per coloro che non possono permettersi i servizi di un operatore professionale, le figlie sono immaginate come utili a sostituire le mogli in una catena intergenerazionale di cura: un processo mentale ancora così naturalizzato che spesso rimane inconsapevole e invisibile. Data la posizione che occupa questo assunto all’interno delle prescrizioni culturali della famiglia, forse non dovrebbe sorprendere che le tecnologie di cura siano decollate in maniera lenta. Come osserva Leopoldina Fortunati, la ragione della lenta penetrazione delle tecnologie negli spazi domestici è dovuta in parte al fatto che i corpi delle donne – con la loro notevole capacità di lavorare – sono già macchine. Sono “macchine naturali”, sostiene, “che lavorano nella sfera domestica” (2014: n.p.).

Come nel caso dell’automazione industriale, dobbiamo riconoscere che se la “macchina naturale” gratuita, ossia il corpo umano, è prontamente disponibile, l’impulso a sviluppare altre tecnologie che svolgano questo lavoro (con un esborso di capitale significativo) risulta di fatto debole. È solo quando la popolazione in eccesso diminuisce, i mercati del lavoro si irrigidiscono e diventa più complicato e costoso sfruttare gli esseri umani, che l’investimento si sposta dal capitale variabile al capitale fisso, cioè dai lavoratori alle tecnologie. Le possibili conseguenze di uno sfruttamento del calo dei tassi di natalità sono, a mio parere, evidenti. Nell’ambito privatizzato delle cure familiari, l’impegno a “generare parentele, non bambini” equivale ad agevolare una contrazione del bacino di manodopera naturalizzata per l’assistenza agli anziani (con rischi non indifferenti per le nostre prospettive future). Ciò può essere utile a creare le condizioni necessarie per accelerare nuovi sviluppi nel campo delle tecnologie assistive.

Il Giappone, famoso per la sua popolazione anziana, sta già assistendo a interessanti novità in questo settore, tra cui i robot per il sollevamento, il lavaggio dei capelli e l’attento monitoraggio della respirazione e del movimento. Sono in fase di sviluppo protesi assistive ibride che agiscono come esoscheletro di supporto, grazie al quale le persone con mobilità ridotta possono spostarsi più liberamente e gli operatori sanitari possono svolgere i propri compiti in modo più sicuro. Le protesi assistive ibride, infatti, possono essere indossate anche da loro quando sollevano o manipolano altri corpi, così da prevenire lesioni da sforzo o iperaffaticamento fisico. Certo, l’aumento di tali tecnologie non può essere assunto come un bene assoluto: l’ascesa dei robot assistivi in Giappone è collegata alle pratiche migratorie restrittive del paese, ad esempio. I robot sono stati creati per eseguire lavori che la gente non vuole far fare a chi emigra in cerca di impiego, cosa che aggiunge un ulteriore livello di complessità al resoconto fin qui delineato. È anche interessante notare che la critica del femminismo materialista a queste tecnologie esprime la preoccupazione che “i robot di cura e altre forme di automazione […] siano poco adatti a soddisfare esigenze complesse, la necessità d’interazione umana, di dignità e autodeterminazione che devono sicuramente essere parte fondamentale dell’erogazione di assistenza in qualsiasi futura società comunista (mcm_cmc, 2015: n.p.).
Personalmente, sono invece molto più propensa ad accogliere l’idea dell’automazione di alcuni processi di cura: molti anziani potrebbero beneficiare in modo sostanziale di queste tecnologie, fintanto che siano rese accessibili e disponibili. Ho sostenuto altrove che la messa in comune delle risorse e la rivisitazione della casa al di là della dimora pensata per la singola famiglia, costosa e inefficiente in termini di energia, potrebbe rappresentare un primo passo nel rendere queste risorse più ampiamente accessibili al di fuori delle consuete istituzioni (Hester, 2015); tra l’altro, ripensare le modalità di vita è un principio fondamentale della mia idea di xenofemminismo. Come James Butler ha osservato, “l’’automazione può dare risultati molto positivi come rimuovere il tipo di […] semplici funzioni della cura di base che tanti operatori nel campo della cura sono costretti a compiere, e quindi li libera dando loro la possibilità di dedicarsi ad altri tipi di relazioni emotive” (2015: n.p.). In maniera decisiva, a questo aggiunge che “avere a che fare con la cura richiede un cambiamento sociale, una rivoluzione sociale” (2015: n.p.).
Trovo sia abbastanza vero: un approccio politico proattivo, femminista e anti-capitalista, deve avere un ruolo centrale nel garantire che tutte le innovazioni tecnologiche provocate da una diminuzione della popolazione siano veramente messe al servizio di coloro che prestano o ricevono cure. In combinazione con una tale prospettiva politica, ritengo che sarebbe possibile accogliere sviluppi di questo tipo poiché sono in grado di alleviare le fatiche, spesso intense nonché estremamente genderizzate, della riproduzione sociale.

Su questo tema, devo sottolineare brevemente il contributo già notevole che il rifiuto della riproduzione obbligatoria da parte di alcun* ha dato per alleggerire il carico di lavoro di determinate parti del corpo sociale. Come ha notato Fortunati, la resistenza del XX secolo a un volume eccessivo di attività domestiche e al secondo turno di lavoro si è manifestata in una riduzione del tasso di natalità in tutto il Nord del mondo. Questo è “un importante terreno di rifiuto del lavoro domestico”, sostiene, poiché dare alla luce e crescere un bambino sono attività di manodopera intensa che assorbono moltissimo tempo (Fortunati, 2014: n.p.). Uno dei modi con cui le persone hanno cercato di ridurre al minimo questo lavoro è produrre un minor numero di dipendenti. La decisione di non fare più tanti bambini è stata, a suo modo, un rifiuto tacito, ma concertato, del lavoro e dell’etica del lavoro.

Nell’area dell’immigrazione, dello sviluppo tecnologico e del lavoro di rigenerazione, dunque, sono evidenti i potenziali vantaggi che derivano dal generare parentele e non bambini. A più lungo termine, l’esortazione di Haraway potrebbe generare altri effetti di tipo emancipatorio. Evitare di estendere deliberatamente la propria linea genetica, ossia impegnarsi nella potatura del proprio albero genealogico, significa ripensare le modalità con cui si articolano intimità, socialità e solidarietà al di là del nesso del nucleo familiare. Nell’allontanarsi dai discorsi della futurità riproduttiva, quelle parti del tessuto sociale che hanno reso abietti i soggetti non-riproduttivi, considerandoli messaggeri della pulsione di morte, saranno scucite e ritessute in una forma meno escludente e più ospitale nei confronti della differenza. Questo ci riporta all’altra parte dello slogan proposto da Haraway per l’Antropocene: generare parentele. Si tratta del momento produttivo legato al suo rifiuto dell’ordine corrente.

Nel suo articolo del 2015, afferma che “Se deve esistere una giustizia ecologica multispecie, capace anche di comprendere persone umane differenti, è giunto il momento che le femministe esercitino la leadership nell’immaginazione, nella teoria e nelle azioni, in modo da sciogliere i legami genealogici e parentali, così come quelli di parentela e specie” (p. 161). In altre parole, le condizioni ecologiche attuali richiedono un femminismo in grado di praticare una “cura migliore di tipi-gruppi (non di specie una alla volta)” (Haraway, 2015: p. 162), e che ci spinga a ripensare le esistenze e le relazioni che la nostra politica tende a privilegiare”. “Parentela” [kin] è il concetto che Haraway mette in campo nel tentativo di coltivare una “sorta di parola assemblante” che (ovviamente) parla di solidarietà al di là del futurismo riproduttivo (2015: p. 161). Con l’esortazione a generare parentele, piuttosto che bambini, facciamo appello a una forma meno naturalizzata, meno ripiegata su se stessa e meno limitata di alleanze sia intra che inter-specie (e come ethos, ossia un protocollo trasmissibile per comprendere il mondo, una forma che può essere adottata e messa in pratica sia da genitori sia da non genitori). Tale invito, io credo, richiama molto lo “xeno” di “xenofemminismo”.

Abbiamo però bisogno di qualificare questa chiamata a raccolta per non generare bambini. Quando discute di che cosa significa “resistere al fascino della futurità, rifiutare la tentazione di riprodurre” (2004: p. 17), Edelman sembra eludere il fatto che la procreazione biologica non sia sempre un processo espressamente pianificato o deliberatamente perseguito. Anche se fosse del tutto assicurato l’accesso all’aborto e se venisse rimosso lo stigma culturale associato alla procedura stessa, è probabile che molte gravidanze non scelte in anticipo sarebbero ancora, per ragioni molto complesse e, a volte personali, portate a termine. E, naturalmente, chi mai vorrebbe farsi avanti per impedire alle persone, in maniera coercitiva, di avere figli? Mi è difficile immaginare che Haraway possa sostenere la necessità di imporre un controllo sulla fertilità delle masse recalcitranti! La sua richiesta deve invece essere vista come un invito a promuovere un cambiamento ideologico, ossia un tentativo ambizioso di spezzare l’egemonia della futurità riproduttiva.

In effetti, la sua idea di riduzione della popolazione abbraccia secoli, piuttosto che decenni. Pertanto dobbiamo unire qualsiasi richiamo a ridurre le dimensioni della popolazione umana con l’impegno ad agire in solidarietà con chi può rimanere incinta e con chi dispensa cure. Ciò è particolarmente importante nel caso di coloro il cui accesso al capitale sociale della genitorialità è drasticamente limitato, ossia i soggetti globali marginalizzati, razzializzati, poveri, queer o in altro modo stigmatizzati.

Forse c’è motivo di sperare che un riorientamento che si allontani dalla futurità riproduttiva e si avvicini ad altri modelli di parentela e di xeno-solidarietà possa effettivamente favorire un’accoglienza più profonda nei confronti di questi gruppi; e che il rifiuto culturale generalizzato della discendenza familiare possa essere inquadrato non tanto come un fare a meno di genitori e tutori, ma come un atto di solidarietà verso nuovi arrivi di tutti i tipi (dai migranti, ai nuovi dispensatori di cure, ai più giovani). In effetti, esistono prove storiche che indicano che l’abbassamento dei tassi di natalità nei paesi del Nord del mondo non porti interamente ed esclusivamente a una restaurazione aggressiva dei “valori della famiglia”, ma che esso sia anche capace di generare condizioni notevolmente diverse. Quando, negli anni del dopoguerra, la dimensione media della famiglia britannica è scesa a 2,2 figli per coppia sposata e il tasso di natalità è sceso sotto il livello di sostituzione, con un deficit di circa il 6%, venne istituita una Commissione Reale che si occupasse delle dimensioni della popolazione.

Quando presentò lo studio nel 1949, la Commissione offrì una serie di raccomandazioni “per aumentare la dimensione della famiglia, almeno a livello di sostituzione” (Boston, 2015: p. 225), tra le quali l’aumento e l’estensione degli assegni familiari, più asili nido, assistenza domiciliare e ludoteche, migliori servizi alla maternità. Infatti, nel tentativo di “rendere il parto più attraente”, la Commissione Reale consigliava che, per la prima volta nel Regno Unito, “gli anestetici fossero liberamente disponibili per le donne al momento del parto” e che il servizio sanitario nazionale fornisse consigli sui contraccettivi (Boston, 2015: p. 225). In questo caso, la diminuzione della dimensione della famiglia ha creato una situazione in cui erano in gioco vantaggi importanti per chi poteva rimanere incinta e si dedicava a lavori di cura. La domanda è: in un ordine sociale immaginario molto diverso da quello della metà del secolo scorso in Gran Bretagna, come potremmo concepire un cambiamento diffuso che non privilegi il patrimonio genetico come mezzo per massimizzare i guadagni per chi si dedica ai lavori di cura? In che modo le nuove culture del rifiuto riproduttivo possono promuovere la solidarietà nei confronti di chi si trova all’esterno dei loro confini, ossia bambini e genitori? L’ottimismo di sinistra deve essere temperato da un’analisi strategica lucida e attenta.

È fondamentale, inoltre, agire in solidarietà con i bambini già esistenti, in contrasto con l’idea culturale pompata del “Bambino”, sfruttata tanto di frequente nei dibattiti sul futuro. Questo non deve accadere, a mio avviso, per assegnare una qualche forma di status speciale ai giovanissimi (non vedo perché dovrebbero essere considerati più preziosi degli adulti o degli anziani, per esempio), ma semplicemente come espressione di un investimento generalizzato, per quanto possibile, nel ricostituire un asilo per i precari e gli oppressi. Dopo tutto, nonostante il culto delle coccole della futurità riproduttiva che Edelman sgonfia in maniera così divertente, anche il bambino più privilegiato è nato in una cultura che strumentalizza l’infanzia. Come osserva Rebecca Sheldon, “correttamente cresciuti e correttamente razzializzati, questi bambini concorrono a formare la ‘riserva’ della nazione, un termine la cui configurazione composta da economie di mercato, ideologia razzista e zootecnia rende chiaro quanto questa attribuzione di vitalità si fondi sulla promessa di un futuro trattabile” (2013, n.p.).

I bambini e l’infanzia sono visti spesso solo in termini della loro utilità per gli adulti, mentre a livello discorsivo vengono sfruttati per placare le ansie culturali circa l’arrivo dell’imprevedibile. Mentre le sofferenze dei bambini reali (in particolare quelli segnati da varie forme di alterità) vengono spesso ignorate, l’immagine del bambino è ridotta a un totem contro le minacce di un futuro potenzialmente inospitale, minacce che vanno dalle malattie alla crisi ambientale, dai veleni chimici alla radioattività. Nell’analisi di Sheldon, gran parte della nostra cultura deve fare i conti con il timore di una “vitalità non umana”: “la catalizzazione della complessità sistemica nell’azione autonoma delle forze naturali, resa chiara dai cambiamenti della biosfera, dalle mutazioni genetiche e dalle malattie epidemiche. Che il futurismo riproduttivo, in altre parole, non accenni a diminuire nel ventunesimo secolo non ha tanto a che fare con l’ideologia di una crescita illimitata, quanto con la sfrenata crescita biologica” (2009, n.p.).

È il bambino che ci rassicura di fronte a un futuro disumano. In questo articolo, sostengo che il futurismo riproduttivo dovrebbe essere considerato un problema per chi tra noi si interessa di ecoattivismo; si tratta di una trappola che, come testimonia il lavoro di Edelman, rischia di far inciampare chiunque cerchi di pensare il futuro. Molte inquietudini nei riguardi del bambino, così spesso fatto coincidere con un mondo ancora a venire, tendono a sostenere ideologie eterosessiste e strutture familiari nucleari monogame, come risultato accidentale della schematizzazione discorsiva che informa il nostro mondo culturale.

Tuttavia, come suggeriscono Nina Power e Jose Esteban Muñoz, il futuro riserva molto di più della futurità riproduttiva. È possibile praticare una politica che superi l’orizzonte della famiglia ed è possibile praticare un attivismo queer sostenuto dall’affetto corroborante della speranza. Anzi, potrebbe essere necessario mobilitare con prudenza un affetto di questo tipo, orientato al futuro, se vogliamo creare le condizioni ospitali per re-ingegnerizzare un presente che, per molti attori umani e non umani, è insopportabile. Considerare la possibilità di realizzare progetti di emancipazione che vadano oltre la futurità riproduttiva, come ho sostenuto, è importante se vogliamo sviluppare un’eco-politica collettiva declinata secondo lo xenofemminismo; ovvero, se desideriamo lottare per la sopravvivenza di tutta la nostra parentela aliena. Se lo xenofemminismo intende sviluppare una politica adatta all’Antropocene, deve ovviamente impegnarsi più a fondo sulla questione dei cambiamenti climatici e insistere sulle miriadi di interconnessioni tra capitalismo, politica di genere, popolazione ed ecologia. Insieme a Muñoz, allora, sostengo che bisogna “abbandonare il qui e ora per andare in un poi e un laggiù. Il movimento dei singoli individui è insufficiente. Dobbiamo impegnarci in una distorsione temporale collettiva” (2009: p. 185).

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Helen Hester è Senior Lecturer in Media e Comunicazione alla West London University. I suoi interessi di ricerca includono il tecnofemminismo, gli studi sulla sessualità, e le teorie della riproduzione sociale; inoltre fa parte del collettivo femminista internazionale Laboria Cuboniks. È autrice di Beyond Explicit: Pornography and the Displacement of Sex (SUNY Press, 2014), co-curatrice di Fat Sex: New Directions in Theory and Activism (Ashgate, 2015) e Dea ex Machina (Merve, 2015), e direttrice della collana “Sexualities in Society” della casa editrice Ashgate. Sotto lo pseudonimo collettivo Laboria Cuboniks è co-autrice di “Xenofeminism: A Politics for Alienation” (2015).

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